Si torna all’Arcadia!

La “guerra fredda” per Villa Massimo e la sua consegna alla Repubblica Federale di Germania nel 1956


Vortrag anlässlich der Tagung „Deutsche Forschungs- und Kulturinstitute in Rom in der Nachkriegszeit“ am Deutschen Historischen Institut, Rom, 29. – 31. Oktober 2003


Dr. Joachim Blüher und Angela Windholz

L’Accademia Tedesca Villa Massimo Roma, fondata al pari delle accademie spagnola, inglese e americana poco prima della seconda guerra mondiale, ha dovuto combattere, nella prima metà del XX secolo, non solo contro un doppio sequestro, ma anche contro i dubbi e le perplessità dei tedeschi sul senso di questa istituzione.

Già nel 1920, quando si tentava di liberare dalla confisca la Villa, aperta solo pochi mesi prima dello scoppio della prima guerra mondiale, si legge nella perizia: „le esperienze con i nostri borsisti di Roma non sono poi così favorevoli, che si possa sostenere il persistere dell’Accademia Tedesca a Roma”.

Il problema non riguardava solo le perplessità crescenti nei confronti della necessità di studi artistici a Roma o la tensione economica di quel momento storico, ma anche l’occupazione di Villa Massimo da parte di mutilati italiani della prima guerra mondiale. I mutilati che trovavano alloggio presso la Villa erano oggetto di facile strumentalizzazione politica come eroi della patria. L’accoglienza degli invalidi presso la Villa tedesca poteva essere interpretata in un certo senso come una riparazione nei confronti del nemico d’armi, come giusta ricompensa a chi aveva subito un danno dalla guerra e la Villa poteva apparire come un trofeo.

Simili impressioni di feticismo internazionale verso le accademie a Roma, considerate come oggetti di rappresentanza nazionale delle culture civilizzate, che in parte si alimentavano non da ultimo dalla mescolanza tra la fama degli artisti ospitati e l’aura del luogo, erano piuttosto diffuse tra le accademie a Roma. Un simile scenario spiega anche il tipo di rapporto intrattenuto con l’Accademia Tedesca del secondo dopoguerra e i ritardi e le complicazioni per la sua riapertura in confronto con altre istituzioni scientifiche.

Durante l’occupazione tedesca di Roma le accademie dei paesi alleati contro la Germania furono costrette a chiudere e furono affidate all’amministrazione fiduciaria dell’Ambasciata Svizzera. Quando le truppe alleate penetrarono a Roma nella notte tra il 4 e 5 giugno 1944, le accademie degli alleati facevano parte dei primi punti di liberazione.

Captain Godfrey Davis del servizio segreto militare britannico, che a sua volta era stato borsista nel 1938 presso la British School a Roma, si spinse, nelle prime ore del mattino, sotto la copertura dei tiratori, fino a Valle Giulia e alla British School.

l portiere, il Signor Bruni, ricorda ancora quel momento: “Quando sentii bussare al portone ripetutamente, ebbi paura che fossero i tedeschi: mi decisi ad aprire e vidi un ufficiale inglese di mia conoscenza, Mr. Davis; […] Mi disse che i tedeschi si stavano ritirando su tutto il loro fronte; allora presi la bandiera inglese e la mettemmo (forse in quel momento era la prima bandiera che sventolava su Roma).”

Le bandiere avevano un ruolo non trascurabile già durante gli sforzi di fondare un’Accademia Tedesca a Roma, in un periodo in cui i dispacci delle agenzie francesi mostravano tutto il loro disappunto per le attività tedesche e la presenza sempre più massiccia di istituzioni tedesche:

„Une académie allemande à Rome. La Ville éternelle est littéralement conquise par les congrégations religieuses et les Allemands. Ceux-ci se sont emparés de la position la plus historique de Rome; ils dominent sur le Capitole avec leur ambassade, leur institut et leur hôpital; de plus ils ont à Rome leurs églises, leurs écoles, leur cercle et même leurs fabricants nationaux de saucisses et de choucroute.

L’immagine di una bandiera tedesca che sventola su una seconda Villa Medici – quasi a rievocare il ricordo delle campagne militari – tradisce un’estrema sensibilità per la suddivisione di terreni rappresentativi tra le accademie d’arte straniere a Roma. Se si considera il loro ruolo di postazioni esterne di rappresentanza culturale nazionale, non stupisce che nel 1944 esse furono nuovamente i primi punti di attacco durante il ritiro delle truppe tedesche.

„Accademia tedesca“ – l’Avanguardia di Roma e gli artisti comunisti negli atelier di Villa Massimo

L’Accademia Tedesca Villa Massimo passò l’8 giugno 1945 sotto sequestro degli alleati come patrimonio del nemico e offrì alloggio temporaneo ad una massa di rifugiati dopo il ritiro delle truppe tedesche.

Quando il 14 agosto 1947 venne deliberata la velocizzazione della vendita di quei beni immobili che, direttamente o indirettamente, erano appartenuti a organizzazioni nazionalsocialiste, sembrava seriamente compromessa ogni possibilità di una destinazione artistica dell’accademia.br />
Tuttavia, per Villa Massimo cominciò ad imporsi un altro progetto, fondato su un’idea, che, secondo quanto tramandato, fu concepita dopo la fine della guerra da artisti antifascisti e comunisti attivi durante la Resistenza. Il loro progetto prevedeva che, tramite i ministri comunisti del governo provvisorio del dopoguerra Palmiro Togliatti e Antonio Pesenti, gli atelier fossero assegnati ad artisti antifascisti e sinistrati di guerra dotati di talento, dietro pagamento di un affitto simbolico.

L’occupazione così regolamentata fece di Villa Massimo tra il 1945 e il 1956 uno dei centri più illustri dell’Avanguardia italiana. Lusso e alta funzionalità degli atelier insieme alla loro collocazione attigua offrivano, dal punto di vista della comunicazione tra gli artisti, una situazione lavorativa straordinaria, altrimenti possibile a Roma solo nel parco di Villa Strohl-Fern sulle pendici del Pincio a Via Margutta. Negli anni del dopoguerra, tuttavia, quest’ultima divenne sempre più inaccessibile, da quando cominciarono a prendervi alloggio prevalentemente star del cinema e notabili di nazionalità straniera e soprattutto americana.

Poco a poco, nei primi anni del dopoguerra, i futuri protagonisti della scena artistica italiana come Leoncillo (Studio 3), Marino Mazzacurati (Studio 4), Renato Guttuso (Studio 5) e i suoi assistenti Aldo Turchiaro e Raffaele Leomporri, Emilio Greco (Studio 2), Enzo Rossi, Enzo Brunori, Vittoria Lippi, Romeo Mancini, Ugo Rambaldi, Salvatore Meli, Aldo Caron (Studio 6), Ugo Marinangeli (Studio 3a), Guido La Regina si insediarono negli studi e negli appartamenti dell’ala degli atelier della Villa.

L’atelier di Guttuso divenne uno dei luoghi più amati della scena artistica romana, che comprendeva Carla Accardi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Piero Dorazio, Sandro Franchina, Mino Guerrini, Mario Mafai, Achille Perilli, Enrico Prampolini, Antonio Sanfilippo, Angelo Savelli, Gino Severini e Giulio Turcato nonché i critici Corrado Maltese e Antonello Trombadori, prima che si scomponessero in raggruppamenti programmatici. Uniti in un primo momento dall’ideale politico e dagli esperimenti artistici, fondarono nel 1947 il gruppo Forma 1 con lo scopo di diventare il primo movimento avanguardistico romano d’arte astratta.

Sorprendente è che, nonostante le loro convinzioni comuniste e l’appartenenza al PCI, tentassero di rimanere fedeli all’astrazione. Nel manifesto annunciano: “Noi ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili.” Un tale atteggiamento liberale e ingenuo (un caso isolato nella storia dell’arte del dopoguerra) era destinato a fallire in poco tempo di fronte alla realtà politica. Sebbene alcuni artisti come ad esempio Leoncillo, anch’egli membro del PCI, riuscissero ad affrontare temi sociali tramite il Neocubismo e già lo stile fosse in grado di esprimere la posizione politica, la separazione sempre più marcata tra il cubismo con le sue forme astratte secondo il modello di Picasso e il Realismo come lo voleva il PCI provocò in molti di loro una crisi creativa. Ricordando i tempi trascorsi a Villa Massimo Leoncillo scrive: „dieci anni e dei migliori buttati dalla finestra.“
Quando i comunisti italiani guardavano ancora con ottimismo alla creazione di uno stato sociale e ad un ampio consenso per le loro idee, Togliatti era per il momento per la non intromissione del PCI nella scena artistica. Nel 1946, tuttavia, e in modo ancora più traumatico nel 1948 con la vittoria elettorale della democrazia cristiana il 18 aprile e con l’attentato a Togliatti del 14 luglio, svanì il sogno di una rapida affermazione del comunismo in Italia e s’inasprì sempre di più il dibattito culturale.

Le sconfitte e gli insuccessi politici del partito comunista provocarono un clima di tensione ai vertici del partito, che a questo punto non volevano più rinunciare ad una propaganda politica con il coinvolgimento degli intellettuali e degli artisti. In particolare l’atelier di Guttuso a Villa Massimo divenne il quartier generale del realismo socialmente impegnato secondo il modello di Togliatti, così come propugnato nelle critiche e negli articoli di giornale di Trombadori in riviste come Rinascita, Realismo e Il Contemporaneo.

Restituzione a chi? – Proprietà contesa in un paese diviso

Durante i contrasti sull’orientamento artistico a Villa Massimo, dove diventava sempre più evidente l’inconciliabilità tra arte formalmente astratta e impegno politico nel senso imposto dal PCI, il comitato interalleato deliberò il 30 luglio 1953 il dissequestro di Villa Romana a Firenze, di Villa Massimo e delle due case per artisti Casa Baldi e Villa Serpentara a Olevano Romano.

La delibera stabiliva semplicemente la restituzione per scopi culturali ai successori legittimi privati. Nel caso di Villa Romana, che già prima della guerra era gestita da un circolo privato di amici, la questione fu relativamente semplice da risolvere, concludendosi con la restituzione il 16 marzo 1954 della villa all’Associazione degli amici di Villa Romana rappresentata dal Dr. Erich Bendheim e Hermann Herold, sotto la guida del Deutscher Künstlerbund di Berlino.br />
Casa Baldi, invece, era di proprietà della Reichskulturkammer, la cui successione legale era altrettanto controversa, tanto più che, come si ammetteva solo mal volentieri, si trattava di un’organizzazione nazionalsocialista. Venne allora proposta come organizzazione erede della „Reichskammer der Bildenden Künste“ la lega delle associazioni di categoria al livello regionale con sede a Monaco, ma si trattava di una soluzione di ripiego decisa in modo affrettato.

Il dipartimento culturale della Repubblica Federale non condivideva questa scelta con la motivazione che si trattava di “un’associazione di artisti nullatenenti e incapaci“ e quindi cercava un’istituzione rinomata che operasse al livello statale. Secondo la costituzione di Bonn, l’erede legittimo dell’organizzazione del Reich era il governo federale, tuttavia, in questo modo si correva il rischio di non adempiere le condizioni di restituzione imposte dalla commissione per il dissequestro degli Alleati, che prevedeva la consegna ad un successore privato.br />
Ancora più complicata appariva la questione della successione legittima di Villa Massimo. Il problema in questo caso esisteva sin dal principio in quanto la proprietà non era ben chiara già da allora. Sull’accademia, fondata con i mezzi privati di Eduard Arnhold nel 1910 e regalata allo stato prussiano, sia l’Akademie der Künste di Berlino che Arnhold esercitavano potere discrezionale. Dopo lo scioglimento tramite la legge della commissione di controllo n. 46 del 25 febbraio 1947 dello stato prussiano, al cui nome era registrata ancora Villa Massimo nel catasto romano, occorreva chiarire chi subentrasse al suo posto nella gestione di Villa Massimo

Per l’Italia era la Repubblica Federale l’erede legittima del Reich tedesco. I beni culturali della Prussia a loro volta dovevano andare nelle mani di un’istituzione da fondare di proprietà culturale prussiana. In una lettera a Hans Arnhold, uno dei discendenti di Eduard Arnhold scomparso nel 1925 e rappresentante della famiglia del fondatore, il direttore del dipartimento culturale del Ministero degli Affari Esteri, il Dr. von Trützschler, si espresse così:

„È stato preso in considerazione di trasferire il patrimonio culturale prussiano ad un soggetto giuridico che, con i suoi organi, rappresenti tutti i Länder di successione prussiana nella Repubblica Federale, mentre dovrebbe essere lasciata la possibilità agli altri Länder di successione prussiana [nella Germania dell’Est] di una successiva compartecipazione.“

Risolvere la questione in questo modo risultò, tuttavia, piuttosto problematico, non solo perché la Stiftung Preußischer Kulturbesitz non raggiunse efficacia giuridica prima del 1961, ma anche e soprattutto perché „le province della successione nella cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca“ avrebbero sollevato la questione della partecipazione piuttosto presto. Si temeva inoltre che non solo i paesi che succedevano al governo prussiano nella Germania dell’Est e in quella occidentale intendessero partecipare alla gestione di Villa Massimo, ma anche tutti i Länder della Germania occidentale

Anche l’Akademie der Künste nella Berlino occidentale, fondata nel 1954, rivendicava il suo diritto d’intervento. Al fine di chiarire le competenze e la proprietà della fondazione di Arnhold, furono addirittura inviate a Bonn dall’Alta Commissione copie degli atti dello State Department Washington al dipartimento per la cultura del Ministero degli Affari Esteri perché gli atti sia a Berlino che a Bonn erano piuttosto oscuri.

L’Italia da parte sua sarebbe stata sostanzialmente d’accordo che fosse un’istituzione culturale come l’Akademie der Künste a Berlino (ovest) a divenire la futura proprietaria e Clemens von Brentano, primo ambasciatore della Repubblica Federale ad essere accreditato presso il Quirinale dal 1951, il 25 gennaio 1954 fece pressioni sul Ministero degli Affari Esteri affinché si arrivasse ad una proposta di soluzione, tanto più che anche l’allora presidente della commissione degli alleati per il sequestro McIvor era decisamente bendisposto alla restituzione.

Dopo due anni di confusione della Repubblica Federale sulle competenze e di critiche sul ruolo artistico di Roma ormai in declino di fronte alla tendenza all’arte astratta imperante a livello internazionale, il Ministero degli Affari Esteri prese addirittura le distanze dall’utilizzo di Villa Massimo come accademia e propose di farne la sede dell’Ambasciata. Gustav René Hocke riferisce che i circoli artistici romani s’irritarono a tal punto che „volevano consigliare al Comune di spedire a Bonn il monumento dedicato a Goethe sul Pincio, perché se Villa Massimo doveva diventare un’Ambasciata il monumento lì in quel posto d’onore al centro della Città Eterna aveva perso ogni suo significato.“

Alcuni giorni più tardi i discendenti di Arnhold, inquietati dalla discussione senza fine, si rivolsero tramite i loro avvocati al Ministero degli Esteri. Ma proprio in questo periodo i parametri della politica estera della Repubblica Federale subirono un cambiamento. Con l’entrata in vigore dei Trattati di Parigi il 5 maggio 1955, Konrad Adenauer ottenne in via definitiva la sovranità della Repubblica Federale Tedesca e l’8 giugno affidò il Ministero degli Affari Esteri ad Heinrich von Brentano, fratello dell’Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania a Roma, Clemens von Brentano. A giugno la commissione per l’arte di Bonn deliberò l’istituzione provvisoria di un successore legittimo tramite il quale il governo federale avrebbe preso in consegna Villa Massimo assumendo i costi per il suo ripristino, gestione e amministrazione. Il finanziamento dei borsisti doveva, invece, essere assunto dai Länder.

Le ingenti spese vennero giustificate dal comitato con la necessità di curare l’immagine politica della Germania: “A Roma gli altri stati gestiscono istituzioni simili a quello che era un tempo l’Accademia Tedesca (Villa Massimo). Già solo per motivi di prestigio politico è auspicabile l’equiparazione della Repubblica Federale, compreso il Land Berlino, con gli altri stati“.

La Berliner Akademie der Künste, che prima gestiva Villa Massimo, non era più coinvolta. Il suo precario stato di successore della prussiana Akademie der Künste data la presenza di un’istituzione concorrente ad est della città, che parimenti rivendicava il suo diritto di successione, e la sua ubicazione in una città divisa costituivano evidentemente due fattori di insicurezza troppo grandi per una gestione solida e stabile dell’istituzione.

L’esclusione dell’Akademie der Künste fu motivata con gli alti e insostenibili costi, che le sarebbero derivati dalla gestione della Villa. Venne cosí a sciogliersi il legame tradizionale che univa gli atelier romani al premio Roma, il prestigioso premio statale della prussiana Akademie der Künste che aveva raggiunto i due secoli di vita.

Accordo culturale tra Italia e la Repubblica Federale – La RDT come fattore di disturbo

L’8 febbraio 1956 l’Italia e la Repubblica Federale firmarono l’accordo culturale bilaterale, con il quale il Presidente del Consiglio italiano, Antonio Segni, durante la sua visita a Bonn nel febbraio del 1956, aveva dato il suo assenso alla restituzione di Villa Massimo. In occasione della visita in Italia di Konrad Adenauer in estate ci sarebbe così stata la consegna simbolica di Villa Massimo alla Repubblica Federale. La Villa fu consegnata allora alla Repubblica Federale come amministratrice fiduciaria giacché il successore della Prussia non era stato ancora comunicato e venne amministrata da quel momento in poi dal Ministero degli Interni.

Durante gli anni cinquanta l’URSS e la RDT spingevano con sempre maggiore forza al riconoscimento di due stati tedeschi. A livello internazionale era sempre più evidente la presenza di due Repubbliche tedesche che rivendicavano diritti tedeschi. Già il 27 febbraio 1956, quindi pochi giorni dopo la firma dell’accordo culturale, fu messa in discussione la legittimità della restituzione della Deutsche Kunstakademie al Governo della Repubblica Federale in una nota di verbale che il Ministero degli Esteri della zona sovietica fece recapitare, tramite la legazione cecoslovacca a Roma, al Governo italiano.

Secondo questa nota la consegna di Villa Massimo alla Repubblica Federale non avrebbe preso in considerazione l’interesse di tutto il popolo tedesco. In aprile venne pubblicata sul giornale “criptocomunista” Paese-Sera, così lo definì l’ambasciatore indignato, un’intervista con il Segretario di Stato del Ministero degli Esteri del governo della zona sovietica, Georg Handke. Brentano criticava già il titolo di „Segretario di Stato per il Ministero degli Esteri“ volutamente ingannevole:

„[...] nell’intervista si parla erroneamente di un ,accordo‘ per il dissequestro di patrimonio un tempo tedesco che sarebbe stato stipulato tra il Governo Federale e l’Italia. Il fatto che questo ‚accordo‘ sarebbe stato firmato solo ‚con uno degli stati tedeschi‘, avrebbe scatenato, secondo quanto riportato nell’intervista, una nota di protesta al Governo Italiano, che ‚purtroppo‘ sarebbe stata poi respinta.“

La reazione dell’Italia fu dapprima rilassata. „Il Ministero degli Esteri italiano ha restituito la nota del Governo della zona sovietica con nota di verbale del 23 marzo 1956 della delegazione cecoslovacca.“ L’ambasciatore, in una lettera al Ministero degli Esteri a Bonn, citò una frase della nota di risposta del governo italiano, nella quale il governo della zona sovietica, definito con condiscendenza “ente”, viene redarguito di non immischiarsi negli affari italo-tedeschi: „non può essere accettata, non riconoscendo il Governo Italiano all’Ente firmatario del documento stesso alcun titolo a trattare questioni concernenti i rapporti italo-tedeschi.“

La nota della zona orientale, nonostante fosse stata respinta, riuscì comunque a provocare un certo effetto. Causò, infatti, ritardi nelle trattative di restituzione, giacché rese necessarie nuove istanze del comitato interalleato presso i governi dei paesi alleati e anche il governo della RDT non si diede per vinto dal rifiuto; questa volta fu consegnata tramite l’ambasciata sovietica a Roma non solo una nota di protesta del “governo della zona sovietica” a Palazzo Chigi, come si legge in una comunicazione della dpa (agenzia stampa tedesca) del 29 maggio, ma proprio a Roma venne alla luce la situazione reale mascherata da una copertura culturale-artistica:

„[...] Il governo di Pankow sostiene il punto di vista che l’accademia delle belle arti sarebbe appartenuta allo stato prussiano, che a sua volta aveva attribuito la preziosissima fondazione ‚Villa Massimo‘ alla ‚Deutsche Akademie der Künste‘ la cui sede si troverebbe a Berlino Est. Durante la guerra, l’Accademia sarebbe tuttavia stata spostata a Berlino Ovest. Da una fonte neutrale ben informata si è saputo in questo contesto nella città eterna che un ambasciatore del Governo di Pankow si trova attualmente a Roma. Ufficialmente sarebbe venuto per eseguire una ‚ricerca storico-artistica‘ commissionata dal proprio governo e dalla Kunstgalerie di Dresda. In realtà si presume sia venuto per esplorare quali possibilità d’intromissione ci siano per il governo della zona sovietica in Italia, al fine di raggiungere anche ad ovest tramite queste vie traverse il riconoscimento giuridico della RDT.“

La RDT tentava, almeno secondo l’interpretazione del corrispondente della dpa, tramite la questione della proprietà e della restituzione di Villa Massimo, di portare la politica mondiale al dibattito sul suo riconoscimento giuridico a livello internazionale. Inoltre anche gli artisti italiani che lavoravano a Villa Massimo si intromisero nella faccenda perché la restituzione della villa metteva in serio pericolo i loro rapporti di affitto. Poiché le argomentazioni degli artisti e del governo della zona orientale nella loro opposizione contro la restituzione degli atelier erano quasi identiche, si suppose che ci fosse un contatto diretto tra gli artisti e Berlino Est. Il sospetto di un accordo tra la RDT e gli artisti divenne sempre più forte nel corso del contrasto per la restituzione degli atelier e di fronte ai diritti man mano avanzati dalla RDT di discutere la “questione pantedesca” sulla base di Villa Massimo:

„Il Presidente della Deutsche Akademie der Künste nel settore sovietico di Berlino, Engel, ha auspicato per Villa Massimo aiuto e collaborazione e ha espresso il desiderio di poter far visita al Prof. Gericke. Il Prof. Franchini, ex amministratore giudiziario della Villa, trattiene i contratti di locazione ancora in suo possesso e indispensabili per l’azione di sfratto; finora non ha reagito a ben sette intimazioni. Non a torto si sospetta che il Sig. Franchini stia offrendo la propria consulenza ai locatari.

Se si dovesse arrivare ad un processo si può azzardare la profezia che a fianco dei convenuti al processo, forse in modo invisibile e comunque gratis, saranno presenti i migliori di quei consulenti giuridici, membri del partito comunista a Roma. Se al contrario la collaborazione elogiata a parole da Engel dovesse essere interpretata come un surrogato temporaneo di quel „dialogo pantedesco“ perseguito politicamente: con che velocità gli atti mancanti arriverebbero sulla scrivania anche senza gli otto solleciti, con quale solerzia probabilmente anche i locatari comunisti avrebbero sgombrato i locali occupati ad un semplice cenno da una certa parte! Una via per la meta, che non può in alcun modo essere raccomandata. Non si può nemmeno trascurare che questi due affittuari sono stati informati per vie misteriose della visita da Bonn e Berlino e addirittura del giorno e dell’ora dell’arrivo con anticipo e in modo affidabile.“
Le sofferenze patite durante la guerra e il conseguente risentimento inasprirono l’atteggiamento degli artisti nella questione degli atelier. Così riporta la dpa riferendosi al Paese-Sera:
NdT: Questo come i successivi articoli di giornali italiani sono ritraduzioni dal tedesco del testo originale. „La restituzione di Villa Massimo (sede dell’ex accademia tedesca), che dovrebbe diventare ‚effettiva‘ il primo ottobre di quest’anno, comporta per gli artisti romani una ‚crisi d’atelier‘, scrive il Paese-Sera. Nei dodici spaziosi atelier della fondazione di Arnhold lavorano attualmente pittori e scultori italiani, (che esprimono chiaramente la speranza che la restituzione definitiva possa protrarsi oltre i primi di ottobre.). Alcuni ritengono addirittura che Villa Massimo sarebbe dovuta rimanere di proprietà italiana come ‚riparazione‘. (Tutti insistono sulla necessità da parte del Comune di Roma di offrire nuovi atelier prima di lasciare gli attuali.) Il pittore comunista, Renato Guttuso, ha espresso l’opinione che Villa Massimo dovrebbe essere attribuita per metà alla Repubblica Federale e per metà alla zona orientale, visto che oramai la divisione della Germania è effettiva e la fondazione di Arnhold ‚deve favorire tutti gli artisti tedeschi.‘ “

Nell’ottobre del 1956 l’Espresso scrive:

„Il consiglio di guerra, che si è tenuto mercoledì scorso a Villa Massimo, ha deciso per la resistenza a oltranza. Alla riunione hanno preso parte gli scultori Marino Mazzacurati, Leoncillo Leonardi e Emilio Greco, e i pittori Renato Guttuso e Enzo Brunori. I loro nemico è addirittura una nazione: la Germania di Bonn. Motivo della guerra sono gli studi a Villa Massimo, che dovrebbero essere restituiti alla Germania Occidentale. [...] Renato Guttuso dice: ‚È ingiusto, che la Villa venga restituita ai tedeschi. Dopo una riunificazione tedesca se ne potrebbe parlare. Ma è illogico dover lasciare gli studi a quegli artisti tedeschi che piacciono agli americani.‘ Tra i comunisti italiani Renato Guttuso è uno di quelli che vede questa ‚espansione‘ americana con maggiore sospetto. Marino Mazzacurati, che a Villa Massimo ha realizzato il monumento alla resistenza di Parma, dice: ‚Per cacciarmi via dovranno usare la forza.‘ Durante la guerra Mazzacurati è stato perseguitato dai tedeschi e dai fascisti e dovette nascondersi per tutto il periodo dell’occupazione. ‚Forse me ne andrò se mi pagano i 20 milioni di lire di risarcimento di danni di guerra cagionati a me e alla mia famiglia.

Fin quando non ricevo i soldi, resto ospite qui.‘ (Se la Villa dovesse essere restituita ai tedeschi e questi dovessero dichiararsi disponibili ad affittare gli studi agli artisti italiani, Mazzacurati non pagherebbe l’affitto, perchè si rifiuterebbe, come dice, di firmare alcun contratto con i tedeschi....) Gli artisti sono decisi alla resistenza a tutti i costi e si oppongono ad ogni intimazione di sfratto, ma stanno comunque prendendo provvedimenti anche per il caso di una sconfitta. Hanno raccolto e continuano a raccogliere decine e decine di fotografie del terrore nazista in Italia. Se saranno costretti a traslocare, le lasceranno appese alle pareti dei loro studi.“ ueste circostanze l’ambasciatore ebbe paura di uno sfratto forzato: „Comunque, ormai mi sono reso conto che uno sfratto forzato in grande stile con uno spiegamento di forze di polizia provocherà prevedibilmente una forte reazione dell’opinione pubblica italiana e su iniziativa dei locatari verrà sfruttata dalla stampa. Alcuni degli affittuari sono comunisti. Tra di loro vi sono anche artisti riconosciuti. Le opere di uno di questi artisti vengono attualmente addirittura esibite in Germania. È molto probabile che con un’abile propaganda le parti in causa faranno di tutto per far intervenire il partito comunista contro le misure presumibilmente brutali da parte della Germania e per suscitare la compassione da parte dell’opinione pubblica italiana sulle violenze inferte a importanti artisti italiani, che verranno messi in mezzo ad una strada nel proprio paese.“

Ancora nel 1958 continuava sotto le ceneri il conflitto per lo sfratto che non veniva mai reso esecutivo e probabilmente anche il governo italiano voleva esercitare di nascosto pressione sulla Germania tramite Villa Massimo, come venne a sapere il Prof. Gericke, ex direttore di Villa Massimo, dallo scultore Marino Mazzacurati:

„Mazzacurati riferisce: La colpa non sarebbe unicamente degli artisti italiani, il cui desiderio di sfruttare il più a lungo possibile i vantaggi di avere a basso costo un alloggio così confortevole sarebbe comprensibile, ma anche delle autorità italiane che non avrebbero provveduto ad alloggi alternativi per i loro connazionali. Infine Mazzacurati ha detto: ‘Che cosa dovremmo fare se dal nostro Ministero della Pubblica Istruzione ci viene raccomandato di resistere allo sfratto, fin quando le opere d’arte italiane rubate durante la guerra non verranno restituite dalla Germania.’“
l sentimento antitedesco, facilmente rievocabile tramite i ricordi delle sofferenze di guerra, era molto più temibile delle rivendicazioni della RDT. Tuttavia, nella questione della restituzione di Villa Massimo che non offriva in pratica alcuna speranza alla Germania orientale, la RDT si arrese alla fine ma senza rassegnazione, anzi riuscì ingegnosamente a creare un proprio centro culturale a Roma: Gustav René Hocke nel maggio del 1957 ammonì nella Süddeutsche Zeitung, di non sottovalutare le attività politico-culturali della Germania dell’Est, ma non fece altro che gettare olio sul fuoco:

Nel frattempo siamo entrati in una ‚nuova fase‘ anche sotto un altro aspetto. A Roma è nato un Centro Thomas Mann, che si autodefinisce un centro di studi e d’informazione. Occorre ‚sottolineare quegli aspetti della vita culturale, economica e politica nella Repubblica Federale e nella Repubblica Democratica di Germania‘, secondo quanto riferito in un cattivo tedesco dall’appello, ‚che sono validi per l’intera Germania‘. Il compito del centro dovrebbe essere quello di ‚sostenere tutte quelle iniziative atte a facilitare i rapporti reciproci tra la cultura italiana e quella tedesca e a contribuire al chiarimento dei problemi politici connessi alla momentanea situazione della Germania.‘ Suona più che chiaramente come una ‚propaganda culturale di stampo politico totalitario. [...] Si capisce che il ‚Centro Thomas Mann‘ non vuole semplicemente molto, vuole tutto. La RDT vi maschera una vera e propria ‚Ambasciata‘ a Roma.“
Simili preoccupazioni tormentavano anche l’attaché culturale dell’Ambasciata Tedesca a Roma, il Dr. Dieter Sattler, che, a fianco dell’ambasciatore e del Prof. Herbert Gericke, portò avanti fino all’inverno del 1956 le lunghe ed estenuanti trattative per la restituzione. In questo periodo riconobbe Sattler come accanto alla minaccia della guerra fredda contro l’Unione Sovietica e i suoi stati satelliti si stesse aprendo una seconda trincea tra i blocchi: „La zona del conflitto si sta allargando“ scrive Sattler nel 1956 in un cablogramma da Roma a Bonn, l’Unione Sovietica sta avviando un’„offensiva culturale“ a livello mondiale. Una simile propaganda culturale manovrata dal governo di un regime totalitario acuirebbe il conflitto tra i sistemi.

La nota di verbale del governo sovietico sopra menzionata costrinse se non altro al chiarimento il Ministro degli Esteri italiano in vista delle difficoltà internazionali che si preannunciavano all’orizzonte e provocò un ulteriore ritardo nella restituzione. Il Ministro degli Esteri intendeva tutelarsi tramite un’appendice contrattuale nelle note di restituzione di fronte alle richieste future della zona sovietica, senza però alcun riferimento esplicito. In un telegramma cifrato dell’Ambasciata Tedesca a Roma consegnato con urgenza solo ai segretari di stato, l’Ambasciatore si adoperò perché venissero accettate le formulazioni italiane, che, a suo avviso, non avrebbero significato in alcun modo il riconoscimento delle richieste della RDT:

„Più di 8 giorni fa è stata trasmessa al Ministero degli Esteri la proposta italiana di aggiungere 8 parole alla dichiarazione di garanzia. Nell’aggiunta viene evitata ogni menzione della zona sovietica e si parla solo in via generale dell’ambito giuridico internazionale. Tale formulazione ha realmente solo un valore teoretico e non pregiudica proprio nulla nei confronti del governo della zona sovietica.“

A Bonn si interpretò l’aggiunta voluta dall’Italia nelle carte contrattuali „sia negli ambiti interni del paese, che in quelli internazionali“ non certo come indicazione celata alla RDT: „dalla formulazione scelta non dovrà essere assolutamente possibile dedurne un riconoscimento implicito della cosiddetta RDT. “ Così come si evitò qui ogni menzione della RDT, anche le pubblicazioni dei decenni a venire tacquero sulla riapertura e la riattivazione di Villa Massimo, e, coerentemente, ancora nel 1978 Carl Gussone non fece parola delle richieste avanzate dalla RDT di codecisione, perché si temeva che anche solo nominando la RDT se ne riconoscesse l’esistenza.

Cionondimeno il problema restava. Anche diversi anni dopo la riattivazione dell’accademia nel 1957 fu affrontata diverse volte la questione sulla proprietà che non era ancora stata chiarita. Nel 1963 sarebbe stata inoltrata all’ufficio del catasto di Roma da „persona ignota un’istanza di accertamento della proprietà, probabilmente manovrata dalla rappresentanza per il commercio della zona di occupazione sovietica.“ Persino nel 1973 notizie sulle rivendicazioni della RDT su Villa Massimo riempivano ancora il buco estivo della stampa tedesca.

Con il titolo di “Prussia Rossa” o “la RDT vuole la successione della Prussia“ la richiesta dell’Ambasciatore della RDT a Roma, Klaus Gysi, di compartecipazione alla Villa Massimo fu registrata con una scrollata di testa, in particolare il governo federale si mostrò stupito della mancanza di scrupoli della RDT, che insisteva nel voler succedere alla Prussia ed esigeva di ereditare i valori patrimoniali, ma non si sentiva responsabile del pagamento dei debiti di guerra e del risarcimento dei danni bellici.

La restituzione di Villa Massimo alla Repubblica Federale di Germania nel 1956

Alla fine del 1956 le trattative per la restituzione giunsero alla meta: la sera del 7 novembre il ministro degli esteri italiano firmò la nota italiana, il giorno successivo avvenne lo scambio di note e il 9 novembre fu firmato il verbale di restituzione.

Lo stesso giorno l’ambasciata comunicò „agli affittuari la restituzione all’amministrazione tedesca con effetto retroattivo a partire dal 31. 10. 1956 [...] con un affisso sull’asse nera della portineria [di Villa Massimo].“ Il 10 novembre fu ricollocato il rilievo bronzeo con l’effige del fondatore Eduard Arnhold rimosso nel 1938 dall’allora direttore Willis, ma conservato dal portiere durante gli anni della guerra. I diciotto affittuari della locazione forzata dell’amministrazione del sequestro, tra cui anche la commissione italiana dell’UNESCO nell’edificio principale e gli artisti, lasciarono Villa Massimo dopo durissime trattative e processi che si protrassero fino al 1958. L’ultimo ad abbandonare il suo atelier fu Emilio Greco che, come annunciò la stampa il 10 luglio, „nel frattempo era passato alla democrazia cristiana“. Con la giustificazione morale di voler mettere a disposizione la Villa ad artisti tedeschi che erano stati tagliati fuori dai contatti internazionali e svantaggiati dal regime nazionalsocialista, si tentava di arginare l’indignazione suscitata dallo sfratto intimato agli artisti italiani ed ex combattenti della Resistenza.

Gli sforzi per ridare all’istituzione il lustro che aveva prima della guerra furono accolti freddamente dall’Ambasciatore Brentano. Sperava, infatti, che la riattivazione di Villa Massimo avvenisse in sordina e con cautela e che si evitasse qualsiasi trionfalismo. Allo stesso modo respinse la proposta di Gustav René Hocke nella Neue Presse dell’11 agosto 1956 di offrire la presidenza d’onore al Presidente della Repubblica Federale di Germania Theodor Heuss, facendo presente che in questo modo si sarebbe data troppa importanza alla casa e alla sua restituzione attirando un’attenzione eccessiva.

Un altro tentativo di riottenere a forza la reputazione fu rappresentato dalla proposta di assumere il famoso pubblicista ed editore del Merkur Joachim Moras come direttore spirituale di Villa Massimo. Segno ulteriore di quello sforzo di trovare personalità di rilievo per rimettere velocemente in sesto la Villa e restituirle prestigio e darle una nuova direzione. Gericke, invece, al pari dell’ambasciatore von Brentano cercava di frenare queste iniziative. Diffidava ormai delle mosse politico-culturali anche per via del suo disincantato realismo. L’Accademia che aveva diretto per dieci anni non esisteva più. Le opere d’arte che costituivano la vita e i ricordi dell’istituzione erano scomparsi e la condizione dell’edificio era sconfortante. Anche i vecchi contatti con le accademie degli altri paesi erano stati distrutti dalla guerra. Potevano essere riallacciati solo con molta prudenza e il fatto che Gericke rappresentasse la Germania prenazista era di enorme vantaggio. Al primo sopralluogo a Villa Massimo annunciò il suo programma ai presenti in questo modo:
„Vorrete sapere quali mete future perseguirà l’accademia. Sarebbe alquanto prematuro voler formulare già oggi programmi ambiziosi di fronte alle difficoltà finanziarie e tecnico-amministrative ancora da chiarire. Ma una cosa può già essere annunciata: l’accademia non sarà un istituto di propaganda. Conformemente alla volontà del fondatore essa sarà innanzitutto un luogo di lavoro per artisti tedeschi che hanno realizzato qualcosa di significativo nel loro campo.“
Con queste parole Gericke si pose espressamente contro la tendenza dominante negli anni del dopoguerra di strumentalizzare politicamente la Villa. Da una parte la RDT cercava di ottenere tramite le sue rivendicazioni su Villa Massimo e le sue attività politico-culturali a Roma sia l’influenza politica che il riconoscimento internazionale. Questa mirata strategia scaturiva con molta probabilità da quell’immagine politico-culturale che di sè voleva dare la RDT. La RDT, infatti, come stato comunista coltivava in modo consapevole un’immagine culturale che doveva essere in primo luogo politica. La tattica della Repubblica Federale non era difficile da smascherare, ma non era possibile combatterla con gli stessi mezzi per la sua mancanza di ideologia.

D’altra parte la Repubblica Federale non sembra sempre aver sostenuto con forza la questione degli artisti, alla quale antepose i problemi politici legati all’impegno per Villa Massimo. Probabilmente i rischi politici servivano solo da pretesto per mascherare gli indugi nell’impegno per la restituzione. Mancava forse alla Repubblica Federale nella sua consapevole rinuncia ad un’ideologia politico-culturale almeno un chiaro programma di politica culturale estera e nel caso concreto un’idea artistica moderna per un’Accademia a Roma, sulle cui basi si sarebbero potute affrontare più facilmente non solo le difficoltà politiche.


Erscheint in:
Michael Matheus (Hg.), Deutsche Forschungs- und Kulturinstitute in Rom in der Nachkriegszeit, Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom 112, Tübingen 2006.

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